di Samuel Beckett
con Paolo Graziosi
regia di Paolo Graziosi e Elisabetta Arosio
Della Supinazione cerebrale e… altri incidenti
Nel 1945, quando scrisse Premier Amour, Beckett ha 39 anni. Vive in Francia da diverso tempo. Ha degli amici, soprattutto irlandesi, una compagna, con la quale dividerà tutta la vita, una piccola rendita, ogni tipo di malessere, un’inesorabile passione per il whisky, e una notevole assenza di notorietà. Cosa abbastanza normale del resto, dato che non ha ancora scritto quasi nulla: a parte Murphy, una specie di romanzo scritto in inglese, piuttosto sorprendente, ma che stranamente i lettori non fanno a botte per leggere. Qualche anno dopo, finalmente arriva Godot e lo rende celebre. Diventa rapidamente l’oggetto di tesi e di glosse. Lo si trova vertiginoso, metafisico, di una indicibile profondità. Suscita quel rispetto proprio dei classici e che lo accosta sotto sotto alla noia. E’ diventato un monumento alla cultura con vista obbligata.
Come per la prima volta. Premier Amour non è una pièce di teatro, ma una breve novella, scritta direttamente in francese, dove un uomo racconta, minuziosamente, le sue prime emozioni; ma non esattamente con il registro sentimentale a cui il tema potrebbe far pensare. La storia stessa, piuttosto stravagante, si può riassumere rapidamente: scacciato alla morte del padre dalla casa dell’infanzia, il narratore incontra dopo un periodo di vagabondaggio, una donna che finirà per proporgli un alloggio. Ha il sospetto di esserne innamorato anche se il suo comportamento potrebbe lasciarci qualche dubbio. Tutto questo ci intriga quasi come un fotoromanzo ma è più divertente. Ciò che conta qui non è “la trama”, piuttosto sarcastica ma le ragioni e i modi con cui viene raccontata. Il narratore è un uomo disturbato. Ciò che ricerca nella vita è la “supinazione cerebrale”. Come ognuno sa, la suddetta supinazione, designa “l’assopimento dell’idea dell’io” e di altre cose. I giochi di parole di dubbio gusto suggeriti da questa parola sono ricercati e voluti dall’autore. In effetti, è fondamentale notare che malgrado il suo desiderio di supinazione “a venticinque anni all’uomo moderno si rizza ancora” ed è questo il problema. Ma come fare ad attuare la suddetta supinazione con tutte queste emozioni? La cosa più semplice è forse di giocarci insieme, di reinventarle, di alterarle, di conservarle: insomma prenderle in giro. E di consolarsi contemplandone il risultato. Che cosa rimane allora al supinatore contrariato? La gioia viziosa di folleggiare nelle sue contraddizioni, l’allegrai giubilatoria di affermare la propria vitalità, lo stupore di accompagnare le piccole miserie umane con una canzoncina che nonostante, consola. Soprattutto bisogna evitare di cadere nel simbolo. Prendere tutto alla lettera. Cercando di trovare la supinazione in tutti gli angoli possibili. Ma di sbieco evidentemente. Perché ciò che salva in fondo è una buona dose di cattiveria. Si dimentica il Nobel, si dimenticano i commentari e ci si concede una bella lezione di savoir-vivre.
Repubblica – Martedì 9 ottobre 2001
Il solitario vagabondo e il suo primo amore
Sorprendente rivelazione parodistica, mellifluo inizio di partita, e pretesto per passeggiare in abituccio da Charlot la vanità d’un solo ombrello e la tutela dissetante d’una bottiglia, e anche preludio storico ad Aspettando Godot, la drammatizzazione della novella Primo Amore scritta nel 1945 da un Beckett 39enne arriva al Teatro Due da stasera ne “Le Vie dei Festival”, grazie all’iniziativa di Paolo Graziosi protagonista del monologo tradotto a suo tempo da Franco Quadri.
Nella scrittura di Beckett questo è il collaudo della figura del vagabondo cogitante, del solitario soggetto fuori dal mucchio. Il barbone un po’ disadattato e misogino racconta i postumi della morte del padre, l’incontro in panchina e il fugace accasamento con una donna consolatoria ma meretrice, e il testo è un flusso captante di pietà e di passione, di problemi erotici, di desiderio ininterrotto d’una supinazione cerebrale, come se la labilità fosse la condizione più liberatoria dell’esistenza. In tale impegno vagante ma testardo, Paolo Graziosi offre una prova allergica e profana, piena di vigore notturno, di dandismo teorico e logorroico. Da vedere e sentire.
Rodolfo Di Giammarco